31 Ottobre 2024
Il futuro della competitività europea è a rischio e secondo gli indicatori economici disponibili, in assenza di una significativa crescita, le famiglie europee devono prepararsi a un periodo di regressione
Le difficoltà dell’Europa
Lo Statista ha la capacità di prendere decisioni strategiche a beneficio del Paese e, a differenza di un semplice politico, lo Statista è il leader che mette l’interesse pubblico e il bene comune al di sopra delle proprie ambizioni personali o di partito.
Quanti statisti/leader riconosciuti dal popolo europeo ci sono oggi in Europa? Di fatto pochi. Proprio l’assenza di leadership, infatti, è il principale problema dell’Europa dei giorni nostri. Il sistema decisionale dell’Ue è strutturato in modo tale da distribuire la leadership in quattro diverse istituzioni: la Commissione Europea, il Consiglio dell’Unione europea, il Consiglio Europeo e il Parlamento Europeo. Sebbene questo sistema sia stato concepito per garantire un equilibrio tra gli Stati membri e i poteri sovranazionali, spesso si verifica una mancanza di azione tempestiva ed efficace e una gestione “lenta” delle crisi. Ad esempio, la presidenza della Commissione Europea, attualmente retta da Ursula von der Leyen, svolge un ruolo chiave nella proposta di leggi e nel coordinamento delle politiche, ma la sua capacità di perfezionare positivamente i percorsi avviati è limitata dalla necessità di ottenere il consenso degli Stati membri e del Parlamento Europeo. La stessa Presidenza del Consiglio Europeo, governata da Charles Michel, assicura il coordinamento delle decisioni dei capi di stato e di governo, ma non ha potere esecutivo diretto. Inoltre, l’Ue, fatica a esercitare una leadership globale in maniera unitaria, non solo per la necessità di mantenere un sistema di governo democratico ma anche a causa delle sue divisioni interne. La guerra in Ucraina ha messo in luce queste difficoltà: mentre alcuni Paesi, come la Polonia e gli Stati baltici, hanno assunto una posizione fortemente contraria alla Russia, altri Stati membri hanno mantenuto atteggiamenti più cauti, specialmente nei primi mesi del conflitto. La dipendenza energetica dall’estero, in particolare dalla Russia per il gas, ha ulteriormente complicato la capacità dell’Ue di assumere istantaneamente una posizione forte. Questo problema ha anche messo in evidenza la vulnerabilità del sistema energetico europeo, rendendo urgente la necessità di trovare alternative sostenibili e affidabili, ma le risposte sono state spesso frammentarie e c’è voluto più tempo del dovuto per trovare un punto di sintesi e mettere in sicurezza il nostro fabbisogno energetico.
Anche in politica estera, l’UE è vista come un attore più debole rispetto ad altre potenze globali, come gli Stati Uniti o la Cina. Questo riflette una mancanza di unità e di visione strategica a lungo termine, nonché l’assenza di una leadership carismatica in grado di proiettare l’Europa come attore principale sulla scena mondiale. In sintesi l’assenza percepita di leadership in Europa è in gran parte dovuta alla struttura istituzionale complessa dell’Ue, alla frammentazione politica tra gli Stati membri e alla mancanza di figure politiche in grado di mettere in campo nuove ed efficaci idee. Inoltre, la risposta a crisi multiple — economiche, sanitarie, energetiche e geopolitiche — richiede una maggiore coesione fra gli Stati membri e una visione unitaria. Quando la visione unitaria non c’è o viene meno, emergono i sentimenti nazionalisti ed euroscettici degli scontenti e diventa difficile definire obiettivi comuni.
Rapporto Draghi
Come si può uscire da questa modalità di gestione degli interessi degli europei poco efficace? Una risposta si potrebbe trovare nella strutturata e documentata ipotesi sviluppata e sottoposta alla Commissione europea dall’ex presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana Mario Draghi secondo il quale «Siamo tutti in ansia per il futuro dell’Europa. La mia preoccupazione non è che ci troveremo improvvisamente poveri e sottomessi agli altri, abbiamo ancora molti punti di forza in Europa, ma è che col tempo diventeremo inesorabilmente un posto meno prospero, meno equo, meno sicuro e che, di conseguenza, saremo meno liberi di scegliere il nostro destino. Se gli ambiziosi obiettivi climatici dell’Europa saranno accompagnati da un piano coerente per raggiungerli, la decarbonizzazione sarà un’opportunità per l’Europa. Ma se non riusciamo a coordinare le nostre politiche c’è il rischio che “l’agenda green” possa andare contro la competitività. Affinché l’Europa rimanga libera, dobbiamo essere più indipendenti. Dobbiamo avere catene di approvvigionamento più sicure per le materie prime e le tecnologie critiche. Dobbiamo aumentare la capacità produttiva europea nei settori strategici ed espandere la nostra capacità industriale per la difesa e lo spazio».
Proprio mentre emergono le grandi debolezze dei tradizionali Paesi guida come Francia e Germania, Draghi si basa su una visione di stabilità a lungo termine, di integrazione economica e solidarietà tra gli Stati membri, combinata con riforme strutturali che mirano a rendere l’Ue più competitiva e resiliente di fronte alle sfide globali, sostenendo la necessità di una maggiore integrazione fiscale all’interno dell’Ue, attraverso un bilancio comune europeo più forte. Questo approccio prevede la creazione di strumenti fiscali comuni per gestire meglio le crisi future. Maggiore solidarietà fiscale tra gli Stati membri, per evitare squilibri economici troppo profondi tra nord e sud dell’Europa. Un altro aspetto del suo “piano” include un rafforzamento dell’unità europea in ambito geopolitico. Draghi ha spesso sottolineato l’importanza dell’autonomia strategica dell’Europa, proponendo un maggiore coordinamento in termini di difesa, politica estera e cooperazione economica.
Perché questo si possa compiere c’è necessità di enormi investimenti, ricorderete gli ottocento miliardi stanziati per il Recovery Plan lanciato durante la pandemia che salvarono i Paesi europei dal collasso. Ora, perché possa realizzarsi il “piano Draghi”, serviranno altri ottocento miliardi, perché è questa la cifra indicata dal nostro ex premier perché l’Europa non rischi l’estinzione. Potete immaginare la levata di scudi in certe frugali latitudini contro questa visione, ma l’alternativa è l’agonia e se ritorniamo alla già citata carenza di Statisti/leader il rischio è di involuzione ma non solo, perché come già detto in precedenza ormai è acclarato che le crisi economiche e sociali portano a un aumento di sentimenti prevalentemente populisti e nazionalisti, con esponenti politici che sfruttano l’incertezza per guadagnare consenso. Questi leader promuovono spesso idee autarchiche, affermando che le istituzioni internazionali o le economie straniere siano responsabili della crisi, e che una maggiore autosufficienza nazionale rappresenti la soluzione. Le promesse di “riprendersi il controllo” e “produrre in casa” possono sembrare attraenti in tempi di crisi, in quanto offrono una via di fuga dalle complessità della globalizzazione ma vanno governate “cum grano salis”.
Le crisi che coinvolgono la sicurezza nazionale, come i conflitti militari o le crisi energetiche, rafforzano la spinta autarchica, doverosa quanto tardiva nel nostro caso, per garantire l’approvvigionamento di beni strategici e riportare sul territorio nazionale quelle produzioni che hanno caratteristiche strategiche. Questo è particolarmente evidente nei settori come quello energetico, in cui la dipendenza da pochi fornitori stranieri può essere vista come un rischio per la sicurezza nazionale. La recente crisi energetica legata alla guerra in Ucraina ha evidenziato come la dipendenza dall’energia russa abbia portato molti Paesi europei a rivalutare le proprie politiche energetiche e a cercare fonti alternative, inclusi investimenti in energie rinnovabili e progetti di autosufficienza.
Queste politiche rispondono al bisogno umano di sicurezza e stabilità in tempi incerti, ma spesso, se non ben bilanciate, comportano il rischio di isolare il Paese dal sistema economico globale, riducendo la competitività e limitando le opportunità di crescita a lungo termine.
Ancora una volta si appalesa la necessità di avere Leader europei che abbiano la visione dei padri fondatori dell’Unione Europea. Se ne approfondite il pensiero e lo contestualizzate al periodo che stiamo vivendo appaiono ancora oggi come giganti: Altiero Spinelli, Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer, Robert Schuman, Jean Monnet, Joseph Beck e Paul Henri Spaak.
Tutti questi leader, sebbene provenienti da contesti politici e nazionali diversi, condividevano l’idea che l’integrazione europea fosse la strada per garantire una pace duratura, la stabilità e il progresso economico in Europa. Attraverso il dialogo, la diplomazia e la cooperazione economica, gettarono le basi per l’Europa che conosciamo oggi, a partire da piccole comunità economiche, fino all’attuale Unione europea. Spinelli, che aveva trascorso anni in prigione come dissidente politico durante il fascismo in Italia, scrisse il Manifesto di Ventotene nel 1941, in cui proponeva un’Europa federale come mezzo per superare il nazionalismo e garantire la pace duratura ed è proprio allo spirito di Ventotene che dobbiamo riferirci per uscire dalle secche un cui oggi siamo impantanati.
Le questioni dei trasporti
Dopo aver citato i giganti del progetto europeo torniamo alle cose più specifiche di casa nostra ed a temi che impattano direttamente sulle lavoratrici e sui lavoratori che rappresentiamo. La privatizzazione dei porti italiani è ormai un tema ricorrente evocato dalla politica, una questione complessa che può essere motivata da diversi fattori e opinioni. Tuttavia, se eliminiamo gli infingimenti, il motivo unico alla base di tale ipotesi è fare cassa anche correndo il rischio di fare danni irreversibili. Fare cassa “come se non ci fosse un domani” senza badare alle opportunità e alle evidenti contraddizioni politiche quali la ricercata autonomia differenziata. Il sistema portuale italiano necessità di competenze e capacità di programmazione sinergica delle realtà portuali nazionali per massimizzare la grande ricchezza che abbiamo e che deriva dai circa 8mila chilometri di costa e che, come è stato più volte evidenziato in centinaia di convegni sull’argomento, rendono il nostro Paese una piattaforma naturale nel Mediterraneo che costituisce un ponte con il resto d’Europa. Ricordiamo, perché questo è un punto dirimente, che in Italia le operazioni portuali sono già tutte privatizzate, qui invece si ragiona di vendere i sedimi portuali e quanto di competenza demaniale, come tragicamente hanno fatto in Grecia quando era con l’acqua alla gola, con il porto del Pireo ceduto alla compagnia statale cinese Cosco che è una delle tante Soe (state-owned enterprises), aziende statali che presentano i loro risultati finanziari e operativi direttamente al supremo organo amministrativo della Repubblica Popolare Cinese, il Consiglio di Stato.
La peculiarità della vendita del porto del Pireo è che rimane un caso unico in Europa in cui si è ceduto il controllo non delle operazioni portuali o dei singoli terminal ma dell’intera Autorità Portuale (Port Piraeus Authority). Con risultati per i locali non particolarmente brillanti, infatti “neocoloniale e dannoso per la comunità”, è il severo giudizio della Camera del commercio e dell’industria del Pireo, che pure si era espressa favorevolmente all’arrivo di Cosco. La stessa Commissione Europea, che pure aveva “sonnecchiato” per anni rispetto a questi temi ha finalmente, all’interno del suo “Strategic Outlook”, definito la Cina non solo come un partner e competitor economico, ma pure come “rivale strategico” varando il regolamento sullo screening per gli investimenti esteri atto a contenere, sia pur tardivamente, l’aggressività economico industriale delle Soe cinesi.
In sintesi, pensare di vendere asset strategici come i porti è una scelta discutibile, per di più in questo delicatissimo momento storico, sia dal punto di vista geopolitico che economico. La perdita di controllo pubblico su infrastrutture cruciali certamente sarebbe foriera di aumenti dei costi per gli utenti, rischi per i lavoratori portuali, con pesanti potenziali implicazioni sulla sicurezza e la sovranità nazionale. Le decisioni politiche riguardo alla privatizzazione dei porti devono considerare questi fattori per garantire il miglior interesse pubblico a lungo termine.
Il rinnovo del Contratto collettivo nazionale di lavoro
L’8 ottobre è stata siglata l’ipotesi d’accordo di rinnovo del contratto nazionale di lavoro (Ccnl) dei porti scaduto il 31 dicembre 2023. Il nuovo Ccnl decorre dal 1° gennaio 2024 fino al 31 dicembre 2026 e riguarda circa 18 mila portuali. L’intesa è stata sottoscritta con le associazioni datoriali Assoporti, Assiterminal, Assologistica e Fise Uniport e alla presenza di Ancip dopo un lungo confronto durato 11 mesi.
L’aumento, che a regime sarà di 200 euro mensili sulla parte retributiva e 120 euro annuali di welfare con 600 euro di vacanza contrattuale, permette il recupero del potere d’acquisto del salario delle lavoratrici e dei lavoratori fortemente eroso, come abbiamo più volte evidenziato su questa rivista, dalle politiche monetarie della Ue, già in via di revisione. Inoltre, fra gli altri benefici, è stata anche riconosciuta una giornata aggiuntiva di ferie a partire dal 2025 e una rivalutazione degli scatti di anzianità. Un risultato apprezzato dalla maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori che, per quanto ci riguarda, rappresenta un punto di partenza e non certo di arrivo, in un percorso di adeguamento dei salari e delle condizioni di lavoro alle migliori pratiche del settore. Adeguamento dei salari e miglioramento delle condizioni di lavoro che puntiamo ad estendere a tutti gli altri ambiti di nostra competenza attraverso i rinnovi contrattuali attualmente in via di negoziazione.